La geisha nel ciliegio

C’era un ciliegio che albeggiava al parco Braille, uno dei parchi del quartiere Navile, a Bologna.
Appena arrivai in via Agucchi, dopo mille traslochi, mi diede per primo il benvenuto.

Esile e gentile, aveva  l’anima  di una geisha avvolta in un kimono di seta rosa.  Decantava antichi Haiku accompagnandosi col suono  di un melanconico shamisen.
Mi sorrideva ogni qual volta incrociavo il suo sguardo di legno vivo.
Androgino amorevole, se ne stava tra terra e cielo, come angelo caduto per amore.

Era un periodo difficile per me.

Le mie radici si stavano sgretolando e l’amabile creatura   mi offri le sue, a cui io mi aggrappai stretta, per non morire.

  Le campane del vicino campanile suonavano capriole d’argento.
Impigliandosi, a volte, tra i fili vischiosi di trasparenti ragnatele, i loro Din Don parevano tremare, come vittime in attesa del serafico ragno.

Dalle marsine  di festose rondini piovevano profumi di terre lontane a inebriare le narici del cuore.

Le farfalle, silenti psicopompi, scrivevano nell’aria i ricordi di chi più non era e mai più sarebbe stato.
Anche mio padre, da poco disincarnato, attraverso quelle ali vibranti mi dedicò un rancoroso, amorevole addio.

Poco più in là, sotto una struttura definita “la pagoda” mamme e bambini oscuravano la gaia serenità di Proserpina.

Chiassosi, prepotenti, irrispettosi occupavano il parco con la stessa violenza dei colonizzatori.

I bimbi innocentemente si aggrappavano ai rami degli alberi, tirandoli brutalmente. Strappavano i fiori appenanati, per portarli alle madri compiaciute del dono che, puntualmente, lasciavano a marcire sulle panchine da cui si alzavano solo per far ritorno a casa.

I loro figli rincorrevano gli uccelli appena essi si posavano al suolo alla ricerca di cibo, non lasciando loro un attimo di pace.

Rapivano farfalle per rinchiuderle in barattoli di vetro e calpestavano gioiosi le formiche che, nubi brulicanti e nere si fiondavano sugli avanzi di cibo da essi lanciati e lasciati al suolo.

Vane le mie proteste.

Monotone le risposte delle mammine:
“Sono bambini, giocano”

Un giorno, mentre camminavo dentro al  Braille accompagnata da Jacob e Kim, vidi un nugolo di pargoli arrampicarsi sul fragile ciliegio per strapparne i fiori, spezzandone, impietosi, i magri rami.

Li rimproverai a voce alta in modo che, le madri distratte nelle loro chiacchiere mi sentissero e vedessero lo scempio che stavano compiendo i loro figli.

Mi rispose un’eco stridula e canzonatoria
” Tu sei matta- fatti curare- Sono bambini che giocano, non vedi?- Tu non hai figli, per questo ragioni cosi-“

“Sarebbe stato saggio da parte vostra il decidere di non avere figli, visto come li  educate. Futuri bulli, insensibili e intolleranti ad ogni forma di diversità”- Ululai contro quel branco umano.

” Continua a passeggiare, vai!  E porta via quei cani che sporcano dove i bimbi giocano”

Proseguii la passeggiata solo dopo avere allontanato gli innocenti usurpatori dalla geisha dal kimono rosa.
Muta mi guardò.
Muta e spaventata nella sua semi nudità.
La geisha nel ciliegio attonita tremava
Io con lei.
Io ero lei.

Poi arrivò quel maledetto giorno.
Il giorno dei ” signori del verde”.

Il Comune, evidentemente gestito da incompetenti, li mandò in piena primavera a potare le piante.

Con rombi di motoseghe incominciarono a smembrare gli alberi.

I rami cadevano al suolo con tonfi sordi e con essi i nidi fioriti di minuscole vite.

Thanatos divorava Eros senza pietà.

“Non è questo il periodo di potatura”- Gridai agli operai.
” Noi lavoriamo, signora. Eseguiamo quello che ci viene ordinato. Sa il detto: lega l’asino dove vuole il padrone? Ecco, noi potiamo quando il padrone lo decide.  Se la faccia col Comune.”
Rispose uno di quelli, forse il capociurma, con voce grigia.

Strapparono quel che rimaneva del kimono, alla  geisha gentile.

Sordi alle mie parole, finirono il lavoro di “stupratura” e se ne andarono.

Telefonai subito alla Polizia Municipale per richiedere un loro intervento e denunciare l’accaduto.

Caddero al suolo le mie richieste d’aiuto, scivolando sulla seta del kimono, inascoltate.
Intanto  l’esercito di pargoli  e genitrici si divideva i lembi di quel tenero kimono, di quella carne legnosa e ancora pulsante, proprio come I soldati si divisero le vesti di Gesù, dopo averlo crocifisso.

” Finalmente- sospiravano le madri- “così non dovranno più arrampicarsi per prendere i fiori”-  “Ogni volta era un patema”- “La paura cadessero e si facessero male mi toglieva il fiato”.

” Madre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”
Pianse la geisha, crocifissa al corpo di legno in cui era nata.
La vidi posare il viso di porcellana sull’esile  spalla destra, con gli occhi socchiusi e lo sguardo nero-stellato volto al cielo, a cercare la Madre- matrigna che l’aveva tradita.

La bella geisha nel ciliegio sparì nel buio  di un’ oscura  primavera.

Il corpo smembrato dell’albero, dopo essere stato modellato a “immagine e somiglianza” dell’umana esigenza, non resse al dolore e poco dopo marcì.

Da quel giorno, nei mesi di  marzo e  aprile, quando  il parco  Braille assonnato sbadiglia all’ aurora di rosa vestita, si sente la voce leggera  di una geisha che,  accompagnandosi con un melanconico  shamisen canta un antichissimo Haiku:

“Mondo di sofferenza:
eppure i ciliegi
sono in fiore.”

Lo Haiku sopracitato è di
Kobayashi Issa (1763-1828)

L’immagine è presa dal Web.