Caro Sindaco Matteo Lepore, Le scrivo con l’inchiostro nero che una delle mie lunghe dita ha rubato dal calamaio della notte. Le scrivo questa mia sul foglio luminoso di quest’alba di inizio aprile. Sono uno degli alberi che popola il Parco Don Bosco. Si, sono uno di quegli alberi che lei, primo cittadino di Bologna, ha condannato a morte. Con me moriranno questi nidi e tutti le creature che abitano il mio vecchio corpo e questo parco. Io sono vivo, proprio come lei e amo questa terra -e qui non posso dire “proprio come lei”, perché lei, Sindaco Lepore, con la sua politica di cementificazione dimostra il suo non amore per Madre Terra e i suoi abitanti, umani compresi. Ho sentito tante nevi, tante piogge hanno bagnato questo corpo nodoso e migliaia di raggi solari hanno giocato con le dita della mia mano. E i bambini sedevano ai miei piedi, quando una buffa campanella squillava e la bocca della scuola si spalancava, per permettere a quelle vite nuove di uscire festose dal corpo di una Madre che li nutriva di libri, sogni e speranze. Sentivo le loro voci ripetere versi di splendide poesie, fatti accaduti in un tempo remoto e nomi di luoghi mai visti, di cui io ne conoscevo l’esistenza grazie ai racconti degli uccelli migratori. Innamorati e vecchi stanchi, emarginati e grandi compagnie di persone, umani col coltello in tasca e umani con, nella tasca, taccuino e matita, si sono seduti ai miei piedi. E io li ho accolti senza giudizio o pregiudizio. Li ho accolti in quanto vita pulsante. Questa mia amorosa accoglienza, questa mia indiscriminata accettazione non sarà, da alcuni umani- tra questi Lei signor Sindaco- a me riservata. Lei, ha sentenziato la mia, e quella di molti altri alberi, pena di morte per reato di esistenza. Non so se leggerà mai questa lettera, io, forse non Sarò più. Uomini motosega mi avranno già ammazzato. Essi, in fondo non fanno che ubbidire agli ordini. Una cosa però gliela voglio chiedere: lei ha due figli, me lo ha detto il vendo dell”Est che, si sa, delle nascite ha tutte le notizie. Quando i suoi figli si renderanno conto di vivere in un mondo di cemento e scopriranno che il loro padre, quando fu Sindaco della città di Bologna, contribuì a questa cementificazione, cosa penseranno di lei? Ora la saluto “fogliosamente” perché, per noi alberi la cordialità vive nelle nostre foglie, attraverso cui doniamo ossigeno e ombra a tutti, anche a chi firma la nostra condanna a morte.
Epifania, epifania che tutte le feste ti porti via Prendi con te questo dolore che si contorce senza rumore Porta con te i singoli istanti in cui i miei sogni caddero infranti
Quanto tormento, mi mana il fiato! Aaaaaaaaffff…Portati via il mio passato
Portati via il male del mondo In cui son sepolta da quando ero sperma Tagli profondi mi recidono il derma: sono le grida dei morti ammazzati donne bambini umani indifesi Sono le grida dei corpi tranciati degli animali a ganci appesi e torturati senza ragione…
…Portami via da questa prigione!
Epifania che appari agghindata di soffici calze e cioccolata su di una scopa di legno e saggina accogli nel grembo quella bambina che vide, che vede dolore in famiglia
Stringimi forte come una figlia Voglio tornare nell’umida terra senza più male, senza più guerra
Portami via dalla casa di Erode Scava una buca e lasciami dove l’unica bomba è il seme che esplode.
Com’e amara l’amarena, questa sera. Sa di sangue e polvere da sparo Piange il cielo un tramonto amaro e dal bosco sale una preghiera “Amarena, non andare, è un tipo losco Sta lontano da quel triste casolare”
“I mi figli hanno fame, poverini Sono piccoli e devono ingrassare L’ inverno ha dita come spini e noi lo dobbiamo sopportare. Ora andiamo verso quel chiocciare. Torniam presto tra queste braccia care.
“Amarena, quanto è amara questa notte I tuoi figli ho visto ritornare Tu non c’eri e le stelle si son rotte ed il cielo ha iniziato a lacrimare.
Canta il vento mite ninna nanna
Dormi orsa dall’animo gentile Alle spalle ha sparato, ad una mamma, L’ uomo senza onore. Il maschio vile. Dormi orsa dall’animo gentile
E la morte dall’orrida mannaia ha spesso un solo volto, volto d’uomo Dio senza divino- maschio padrone
Son millenni che non sono Gaia Femmina abusata e senza nome
Ma con te intravidi un bel domani, morto- ahimè- l’ultimo d’agosto:
La bella convivenza tra gli umani
e voi, popoli del bosco
Com’è amara l’amarena
questa sera. Sa di sangue e polvere da sparo Dice la fiaba: una volta c’era un’orsa gentile in un mondo amaro.“
C’era un ciliegio che albeggiava al parco Braille, uno dei parchi del quartiere Navile, a Bologna. Appena arrivai in via Agucchi, dopo mille traslochi, mi diede per primo il benvenuto.
Esile e gentile, aveva l’anima di una geisha avvolta in un kimono di seta rosa. Decantava antichi Haiku accompagnandosi col suono di un melanconico shamisen. Mi sorrideva ogni qual volta incrociavo il suo sguardo di legno vivo. Androgino amorevole, se ne stava tra terra e cielo, come angelo caduto per amore.
Era un periodo difficile per me.
Le mie radici si stavano sgretolando e l’amabile creatura mi offri le sue, a cui io mi aggrappai stretta, per non morire.
Le campane del vicino campanile suonavano capriole d’argento. Impigliandosi, a volte, tra i fili vischiosi di trasparenti ragnatele, i loro Din Don parevano tremare, come vittime in attesa del serafico ragno.
Dalle marsine di festose rondini piovevano profumi di terre lontane a inebriare le narici del cuore.
Le farfalle, silenti psicopompi, scrivevano nell’aria i ricordi di chi più non era e mai più sarebbe stato. Anche mio padre, da poco disincarnato, attraverso quelle ali vibranti mi dedicò un rancoroso, amorevole addio.
Poco più in là, sotto una struttura definita “la pagoda” mamme e bambini oscuravano la gaia serenità di Proserpina.
Chiassosi, prepotenti, irrispettosi occupavano il parco con la stessa violenza dei colonizzatori.
I bimbi innocentemente si aggrappavano ai rami degli alberi, tirandoli brutalmente. Strappavano i fiori appenanati, per portarli alle madri compiaciute del dono che, puntualmente, lasciavano a marcire sulle panchine da cui si alzavano solo per far ritorno a casa.
I loro figli rincorrevano gli uccelli appena essi si posavano al suolo alla ricerca di cibo, non lasciando loro un attimo di pace.
Rapivano farfalle per rinchiuderle in barattoli di vetro e calpestavano gioiosi le formiche che, nubi brulicanti e nere si fiondavano sugli avanzi di cibo da essi lanciati e lasciati al suolo.
Vane le mie proteste.
Monotone le risposte delle mammine: “Sono bambini, giocano”
Un giorno, mentre camminavo dentro al Braille accompagnata da Jacob e Kim, vidi un nugolo di pargoli arrampicarsi sul fragile ciliegio per strapparne i fiori, spezzandone, impietosi, i magri rami.
Li rimproverai a voce alta in modo che, le madri distratte nelle loro chiacchiere mi sentissero e vedessero lo scempio che stavano compiendo i loro figli.
Mi rispose un’eco stridula e canzonatoria ” Tu sei matta- fatti curare- Sono bambini che giocano, non vedi?- Tu non hai figli, per questo ragioni cosi-“
“Sarebbe stato saggio da parte vostra il decidere di non avere figli, visto come li educate. Futuri bulli, insensibili e intolleranti ad ogni forma di diversità”- Ululai contro quel branco umano.
” Continua a passeggiare, vai! E porta via quei cani che sporcano dove i bimbi giocano”
Proseguii la passeggiata solo dopo avere allontanato gli innocenti usurpatori dalla geisha dal kimono rosa. Muta mi guardò. Muta e spaventata nella sua semi nudità. La geisha nel ciliegio attonita tremava Io con lei. Io ero lei.
Poi arrivò quel maledetto giorno. Il giorno dei ” signori del verde”.
Il Comune, evidentemente gestito da incompetenti, li mandò in piena primavera a potare le piante.
Con rombi di motoseghe incominciarono a smembrare gli alberi.
I rami cadevano al suolo con tonfi sordi e con essi i nidi fioriti di minuscole vite.
Thanatos divorava Eros senza pietà.
“Non è questo il periodo di potatura”- Gridai agli operai. ” Noi lavoriamo, signora. Eseguiamo quello che ci viene ordinato. Sa il detto: lega l’asino dove vuole il padrone? Ecco, noi potiamo quando il padrone lo decide. Se la faccia col Comune.” Rispose uno di quelli, forse il capociurma, con voce grigia.
Strapparono quel che rimaneva del kimono, alla geisha gentile.
Sordi alle mie parole, finirono il lavoro di “stupratura” e se ne andarono.
Telefonai subito alla Polizia Municipale per richiedere un loro intervento e denunciare l’accaduto.
Caddero al suolo le mie richieste d’aiuto, scivolando sulla seta del kimono, inascoltate. Intanto l’esercito di pargoli e genitrici si divideva i lembi di quel tenero kimono, di quella carne legnosa e ancora pulsante, proprio come I soldati si divisero le vesti di Gesù, dopo averlo crocifisso.
” Finalmente- sospiravano le madri- “così non dovranno più arrampicarsi per prendere i fiori”- “Ogni volta era un patema”- “La paura cadessero e si facessero male mi toglieva il fiato”.
” Madre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” Pianse la geisha, crocifissa al corpo di legno in cui era nata. La vidi posare il viso di porcellana sull’esile spalla destra, con gli occhi socchiusi e lo sguardo nero-stellato volto al cielo, a cercare la Madre- matrigna che l’aveva tradita.
La bella geisha nel ciliegio sparì nel buio di un’ oscura primavera.
Il corpo smembrato dell’albero, dopo essere stato modellato a “immagine e somiglianza” dell’umana esigenza, non resse al dolore e poco dopo marcì.
Da quel giorno, nei mesi di marzo e aprile, quando il parco Braille assonnato sbadiglia all’ aurora di rosa vestita, si sente la voce leggera di una geisha che, accompagnandosi con un melanconico shamisen canta un antichissimo Haiku:
“Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore.”
Lo Haiku sopracitato è di Kobayashi Issa (1763-1828)
Io ricordo, o boschi ombrosi nei miei cari, lieti momenti tra le fronde e bianchi venti figli miei giocar gioiosi Vi ricordo, o boschi ombrosi
Mi ricordo, o terra scura, camminavo sul tuo cuore, nella pioggia dopo calura tra l’odor di petricore Ti ricordo, o madre pura.
Io ti supplico perdono Te lo chiedo mestamente madre orfana d’un figlio, tu lo sai, son rea innocente Tutti vittime d’un uomo dal coraggio d’un coniglio dal cervello d’una volpe che sugli orsi getta le colpe.
…Io ricordo, o boschi ombrosi nei miei cari, lieti momenti tra le fronde e bianchi venti nostri figli correr gioiosi
Ricordateci, signori e scrivetelo negli atti: fummo attori designati nelle mani di…
Voce del verbo essere
Passato remoto terza persona singolare Plurale di gatto
Il gendarme sparò al cinghialetto che inerme giaceva immobile e ferito. Diligentemente esegui gli ordini dei suoi padroni, poi se ne tornò a casa da sua moglie, dai suoi bambini e giocò con loro Il Natale brillava nella sera buia. Buia come la piccola vita a cui aveva sparato. Le suppliche della donna che lo implorarono di non uccidere quel cucciolo senza madre e senza diritti suonavano, nel suo cuore, come rumori disturbanti Li zittì “Quest’anno mi vestirò da Babbo Natale- Pensò- Rosso come il sangue e bianco come la morte” Quell’ultimo pensiero lo fece rabbrividire. Lo zittì Lui obbediva agli ordini Bravo servitore del suo padrone Non era pagato per pensare Era pagato per eseguire Lo stipendio gli serviva per mantenere i suoi cuccioli… …Il cinghialetto aveva occhi di bambino impaurito Cercava la vita in ogni spasmo di dolore Gli aveva sparato come si spara a un bersaglio di cartone Bravo servitore del suo padrone “Quest’anno mi vestirò da Babbo Natale- pensò- Rosso come la vergogna. Bianco come la banalità del male” A quel pensiero rabbrividì Maledì la bocca della coscienza e la zittì.
“Pignola non voglio esser davvero ma se tu sai, dimmi il perché se tu dell’amor sei il simbolo vero per chieder conferma spennano me?
” m’ama, non m’ama “.. Ma cacchio, che hanno? Io che ne so del cuor degli amanti. Se sono amati lo capiranno, questi umani spocchiosi e ignoranti!
Ero tranquilla nel prato d’aprile, danzavo alla brezza d’un chiaro mattino, quando ad un tratto mi sento morire al ” m’ama non m’ama” di un uomo cretino.
Brutto assassino, che male gli feci?
No che non l’ama e mai l’amera’!
Poi mi ha gettato su un mucchio di feci sola e ferita nella mia nudita’
Or dunque dimmi, rosa vermiglia, che ridi altera al sole che muore: Uccidono me, povera figlia quando sei tu il logo d’amore?
…” Amica cara, mi spiace davvero ma io son regina, tu poveretta Regola amara del mondo intero: chi nulla conta si usa e si getta“
La mia follia mi ha sgretolata, mi ha gettata in una profonda palude, poi ha ripescato le mie macerie per ricrearmi. Sono la creazione della mia follia